martedì 5 febbraio 2013

La profezia di Bastasin

Nell'autunno del 2001 mi trovavo all'interno di un grigio box di un metro per un metro e dalla temperatura al limite della sopportazione umana, dovuta al calore prodotto da due vetuste fotocopiatrici sempre in funzione. All'esterno, studenti svogliati aspettavano in fila il loro turno per farsi fotocopiare i testi presi in prestito. Sebbene avessi appena conseguito una laurea in scienze dell'educazione e avessi espressamente richiesto di adoperarmi nel settore sociale (Caritas, comunità, scuole), mi fu assegnato l'incarico di assistente alla biblioteca universitaria (leggasi: ragazzo delle fotocopie) in qualità di obiettore di coscienza. Il 2001 è stato l'ultimo anno prima dell'abolizione del servizio militare obbligatorio in Italia, ma le scelte su destinazione e incarichi assegnati agli obiettori erano ancora di competenza dell'esercito, che vedeva bene di “punire” i sedicenti pacifisti assegnandoli a mansioni il più possibile incompatibili con le indicazioni espresse al momento della registrazione. C'era ovviamente la possibilità di presentare una nuova domanda, ma per evitare equivoci mi si addusse l'esempio di una “testa calda” allontanata appositamente in quel di Pordenone. A buon intenditor, poche parole. Va da sé che i miei 10 mesi andarono semplicemente sprecati, non solo per me, ma anche per il supporto che, da operatore qualificato, avrei potuto offrire alla mia comunità di appartenenza. 

Dopo questa premessa, la crescente allergia che andavo sviluppando nei confronti del Belpaese è più che comprensibile.  Unico sollievo alla “naia” era la possibilità di accedere senza limiti ai volumi della biblioteca. Già allora progettavo piani di fuga e la destinazione prescelta era la Germania, per ragioni inizialmente sentimentali, che nascondevano però un interesse speciale per quella terra così diversa dalle nostre coste mediterranee. L'attrazione e il fascino che provavo mentre leggevo le edizioni degli anni '70 dello “Spiegel”, nel tentativo di migliorare affannosamente la comprensione della lingua, cresceva in maniera proporzionale alla mia determinazione di lasciare l'Italia. Nei momenti di distrazione della direttrice sgattaiolavo dal pestifero box e raggiungevo a passo svelto la facoltà di lingue, dove seguivo tre corsi di tedesco (base, medio e conversazione). La frustrazione della mia condizione alimentava energie insospettate.  Durante un periodo di calma piatta, aggirandomi tra la penombra di un sabato mattina, individuai tra i polverosi scaffali un libro il cui titolo mi saltò subito agli occhi: “Alexanderplatz – Da Berlino all'Europa tedesca”. Si trattava di un volume scritto cinque anni prima (e quindi nel 1996) da Carlo Bastasin, economista e giornalista de "La Stampa" e de "Il Sole 24 Ore" . Divorai il libro in meno di tre giorni e ricordo che rimasi colpito dalla acutezza delle osservazioni dell'autore sulla società tedesca. All'epoca avevo visitato la Germania solo un paio di volte e per periodi non più lunghi di una settimana e, pur apprezzando il libro, non potevo giudicarne l'attendibilità.  

A distanza di dodici anni, e dopo aver trascorso degli anni in terra tedesca, ho deciso di riprendere in mano il volume, acquistato per l'occasione su internet di seconda mano, guarda caso proprio da un torinese ("La Stampa" è il giornale di Torino). Se leggere è piacevole, rileggere lo è ancora di più, soprattutto se ciò che abbiamo tra le mani è un prodotto di qualità. Le rilettura di “Alexanderplatz” dopo più di una decade di esperienze dirette si è rivelata, se possibile, ancora più affascinante della lettura durante gli anni della “prigionia”. E in più posso confermare la bontà delle riflessioni e conclusioni di Bastasin.  Il libro tratta argomenti ancora sorprendentemente attuali: l'integrazione tra Germania est ed ovest dopo la caduta del muro, l'impatto delle politiche sociali tedesche, le loro prospettive future, il ruolo della Germania nella politica non solo monetaria dell'Unione. Tra le molteplici sollecitazioni contenute nelle 233 pagine del libro, la seguente mi ha impressionato in modo particolare:

“quanto può durare […] la solidarietà tra paesi diversi come quella richiesta dal progetto europeo? La risposta è semplice: fino alla prossima recessione, fino alla prossima crisi che taglierà la linea di galleggiamento di una barca troppo affollata e velocemente assortita per essere già unita e solidale”

Mi piace evidenziare queste parole (scritte nel 1996) e considerarle come “la profezia di Bastasin”, anche se probabilmente in quel periodo l'inviato in Germania de "Il Sole 24 Ore" non era l'unico a sottolineare l'urgenza circa riflessioni più approfondite in merito al processo di integrazione europea. L'Unione Europea è attualmente un facile bersaglio, che catalizza critiche, malumori e crescenti sentimenti di disaffezione e disillusione. Sebbene la maggior parte di questo malcontento sia giustificata e comprensibile, non va però dimenticato che l'architettura delle istituzioni comunitarie è ed è stata un prodotto della volontà preponderante degli stati membri, al fine di tutelare gli interessi nazionali. Non è un caso che il potere principale è ancora detenuto dal Consiglio dei Ministri dell'Unione Europea (e quindi dai governi), nonostante il trattato di Lisbona abbia esteso il principio di co-decisione del Parlamento Europeo a quasi tutto il processo legislativo comunitario. Quando tendo ad essere troppo euro-scettico, euro-depresso o euro-catastrofista, ora tendo a morsicarmi la lingua a e pensare due volte prima di parlare; perchè, allo stesso tempo, provo anche una gran rabbia quando sento o leggo le dichiarazioni dei rappresentanti dei governi (non solo quello italiano, sul quale sono ovviamente più informato) che accusano “l'Europa” (identificandola grossolanamente con l'UE, che conta invece 28 stati su 50 esistenti nel vecchio continente) per i peccati da loro commessi, con lo scopo di estraniarsi da una situazione che loro stessi hanno contribuito a creare.

Nella sua lucida analisi risalente a quasi venti anni fa, Carlo Bastasin sottolineava come il progetto di integrazione europea non si sarebbe potuto basare solo su direttrici di natura economica e finanziaria, come se lo sviluppo della solidarietà sociale fosse un risultato di strategici “spill-overs”. Occorreva e occorre tuttora un ripensamento non solo della già menzionata architettura istituzionale comunitaria, ma anche delle sua fondamenta sociali e culturali, in una parola: umane. Sempre che non sia troppo tardi. La lettura di “Alexanderplatz”, per chi voglia comprendere più a fondo la questione qui solo brevemente dibattuta, è più che consigliata.
PS: se sta leggendo questo articolo, saluto cordialmente Carlo Bastasin (gradito frequentatore di questo blog).